Capodanno a Miami Beach
DAL CAPITOLO 11 "TRASFERTA A EST"
Miami, Florida, mercoledì 31 dicembre«Tachipirina, please.»
«Tachi…whaaat?»
Sono partiti che a Boston c’era una bufera di neve, con cappelli di lana, sciarpe e giacconi pesanti. Atterrati ad Orlando, in Florida, dopo tre ore di volo, hanno trovato un clima quasi estivo con temperatura sopra i venti gradi. A Miami fa ancora più caldo.
Giovanni sta malissimo, lo sbalzo termico l’ha ucciso. Sente brividi in tutto il corpo ed ha trentotto di febbre. Vuole giocare a tutti i costi. Rinunciare a scendere in campo, ora, potrebbe farlo uscire dalle rotazioni del coach. Non può stare in panchina proprio ora che le sue prestazioni stanno lasciando tutti a bocca aperta. La sfida contro Miami è cruciale.
Sono già all’American Airlines Arena per il riscaldamento pre-partita. Gio chiede di poter vedere il medico. In nessun caso rinuncerà a scendere in campo. Gli chiede una tachipirina.
«Tachi…whaaat?»
«Una tachipirina. Non ce l’avete qui in America?»
«Tu dimmi che problema hai. Alle medicine ci penso io», dice il medico.
«Ho febbre a 38 e male alle ossa. Dev’essere stato lo sbalzo di temperatura. Ma stasera devo giocare.»
«Non preoccuparti, adesso ti faccio un’iniezione e tra mezz’ora ti sentirai meglio.»
Un’ora dopo Giovanni è pronto a scendere in campo con il quintetto base. Non sa cosa gli abbiano sparato nelle vene, ma sente energia e adrenalina pompare dal cuore. Deve farla pagare ai Miami Heat, che l’hanno illuso e poi snobbato ai Draft. Vuole dimostrare cosa si sono persi.
Schierato in campo, vede il centro Raul Rodriguez, il gorillone che aveva fatto il provino con lui ed era stato scelto al primo turno. Si rivolge a Mike: «Lo vedi quel bestione? Se ti riesce dagli un bella gomitata in faccia.»
«Spiacente John», risponde l’amico. «Ho già avuto fortuna ad avere una sola giornata di squalifica e cinquantamila dollari di multa. Mi conviene stare buono per un po’.»
In campo Giovanni è scattante e lucido. Ha finalmente trovato la sua dimensione negli schemi d’attacco. Quando Madison Stanley è raddoppiato in difesa e non ha alternative, il cecchino italiano è l’ottima soluzione per un ribaltamento di campo. Non deve far altro che smarcarsi con uno scatto ed aspettare dietro la linea dei tre punti. Ha un rilascio ed un tiro incredibili: non appena riceve palla è subito in salto per tirare. La tripla è garantita. Mike Smithson è la sua guardia del corpo dentro e fuori dal campo. Giocano in perfetta simbiosi: i suoi blocchi gli permettono di smarcarsi dai difensori più fastidiosi, raggiungere la posizione ottimale e tirare in tranquillità. Ecco perché, grazie alle spettacolari giocate di Stanley, la precisione di Giovanni, la forte presenza sotto canestro di Walk e il gioco duro di Smithson, l’attacco di Memphis è diventato una macchina macina-punti.
La partita arriva all’ultimo quarto in sostanziale equilibrio. L’ultimo possesso è determinante per i Grizzlies, che sono sotto di 2 lunghezze. Mancano 10 secondi. Vince passa a Stanley. Blocco di Walk per lui. Madison cerca di penetrare a canestro ma ha due difensori in avvicinamento. Meno 5 secondi. La palla torna a Jerry, poi di nuovo a Madison, che non ha spiragli. Meno 3 secondi. Palleggia. C’è una sola via d’uscita. Ribalta a tutto campo verso Gio, che riceve a sinistra. Può tentare la tripla. Il difensore corre disperatamente verso di lui. Meno 1 secondo. Quando la palla è già lontana dalle sue mani, al punto più alto della sua parabola, il cronometro si azzera e la luce del tabellone si accende di rosso. La sirena suona il giudizio finale. È un buzzer beater, un canestro decisivo allo scadere del tempo, l’occasione più eccitante per un giocatore di basket e per i suoi tifosi. Giovanni si ritrova tutti i compagni addosso. Il suo successo è consacrato. Il loro rispetto è conquistato.
Più tardi, in conferenza stampa, Jerry Marianucci, presidente dei Miami Heat, dichiara con risentita sincerità: «Non c’è stato nessun errore tattico da parte della squadra. Il nostro unico grande errore è stato quello di non scegliere John Tyron allo scorso Draft, quando ne abbiamo avuto la concreta possibilità.»
Bisogna festeggiare. Non solo perché hanno battuto gli Heat, ma anche perché è l’ultima notte dell’anno. Due pullmini con vetri oscurati li passano a prendere direttamente all’American Airlines Arena. Parte una spedizione punitiva, e Jerry Vince è il condottiero. «Adesso vi porto io nel locale giusto», dice tutto orgoglioso.
La mezzanotte li sorprende in strada. Le vie straripano di gente che fa festa. Il clima è quasi carnevalesco. “Capodanno a Miami Beach. Roba da non crederci” scrive Gio a Simone, che nella lontana realtà parallela italiana ha già finito i festeggiamenti e riaccompagnato a casa Laura.
Il Sex On The Beach, uno tra i più esclusivi locali di Miami, li accoglie come si deve. Hanno un accesso diretto al locale e sono scortati dentro da bestioni in divisa. «Se questi scoprono che siamo la squadra che stasera ha stracciato gli Heat ci sbattono fuori», commenta timoroso Jack Williams, il texano con la cresta da moicano.
«Credo che sappiano perfettamente chi siamo, Jack», risponde Mark Gordon.
L’interno del locale è concepito in stile ‘spiaggia sull’oceano’, con la sabbia sotto i piedi, palme dappertutto, cocktail tropicali. La musica è assordante. La pista da ballo è piena rasa di ragazzi con camicie aperte che si dimenano davanti a bellezze che si strusciano provocanti. Un’intera area VIP è riservata ai Grizzlies. Due guardie del corpo con auricolari sorvegliano l’accesso ai loro divanetti. Sembrano bassi e minuti di fronte a Big Caro e Big Mike. Arrivano delle cameriere in bikini che portano bottiglie di champagne in cestelli del ghiaccio. «Ragazzi, stasera si festeggia con l’ambrosia della mia adorata Francia. Dom Pérignon per tutti! Accomodatevi, ma disponetevi in griglia, come ai tiri liberi. Lasciate spazio fra di voi», dice premurandosi che tra ogni compagno ci sia un posto vuoto.
«Che diavolo vuoi combinare, testa matta d’un francese?» si lamenta Stanley.
«Adesso state a vedere cos’altro ho preparato per voi», e batte le mani due volte come un maître d’altri tempi. Al segnale, una dozzina di ragazze fa il suo ingresso nel privè. Brune, bionde, rosse, magre, formose, bianche come avorio, mulatte, nere d’Africa, tutte bellissime: si siedono negli spazi tra un giocatore e l’altro, accavallano le gambe tornite e perfettamente lisce, si muovono in una nuvola di dolce profumo ed hanno sorrisi seducenti.
«Ora sì che facciamo festa!» esclama Jack mentre stappa una bottiglia di costoso champagne, spruzzando gli amici e soprattutto le ragazze, che ridono squittendo come graziosi animaletti.
L’adrenalina della partita, l’euforia per la vittoria, la follia della festa, la compagnia di femmine lascive e disponibili, l’ebbrezza dell’ennesima coppa trangugiata a goccia: tutto inebria Giovanni, che si sente sul monte Olimpo. Così devono divertirsi gli dei, lassù nel cielo.
Il tempo si dilata all’infinito. Gli sembra che la notte possa durare per sempre e che i minuti scorrano come secoli. Una pazzia collettiva si è impossessata dei giocatori, che fino a due ore prima stillavano sudore sul campo. Sono giovani, famosi, nella piena forma dei loro corpi statuari, vincenti, acclamati, ammirati da platee infinite. Sono a Miami. Devono afferrare ciò che la vita può offrire. La musica pompa nelle loro teste confuse. Vogliono bere il succo della vita, che sa di fica e champagne. Gio si guarda intorno. Qualcuno è sceso in pista a ballare. Jerry ha una rossa sottobraccio e con lei beve dalla bottiglia. Jack si bacia con una biondina tutta elettrica. Una tetta bianca e morbida come una mozzarella affiora dal top. Mike ha una principessa nubiana sulle gambe. Sta a cavalcioni su di lui ed ha cosce enormi. Gli slip sono rossi. Non vede l’amico in viso, ma le sue mani gigantesche si muovono con maestria sotto la minigonna. Stanley sembra l’unico a non aver perso il controllo. Se ne sta lì con un giovane compagno di squadra, sorseggia dal suo bicchiere, gesticola, tutto preso da quello che sta spiegando, come se nulla stesse accadendo attorno a lui.
«Ciao, come va?» Una ragazza prende posto accanto a Giovanni. Ha un succinto corpetto fatto di brillantini, due bocce sode come marmo e lunghi capelli neri e lisci.
«Mi hanno detto che sei italiano. Sai, mio padre è spagnolo.»
Più in là, Jerry lo vede e gli fa l’occhiolino, accompagnato da un gesto più che esplicito.
Lei continua: «Mi piacerebbe molto vedere la Spagna, un giorno. Vorrei visitare anche l’Italia. Dicono che…»
La tipa ha appoggiato una mano sulla sua gamba. Il suo viso è a pochi centimetri. Ha labbra morbide e lucide. Un profumo intenso e fresco. Occhi azzurri, bellissimi. Molto meno profondi di quelli di Laura.
«Sai, tu mi ricordi una persona…» la interrompe Giovanni biascicando le parole. È ubriaco. All’improvviso si sente stanco.
«…una persona che ora è molto lontana. Scusa, devo prendere un po’ d’aria.»
Si alza dal divanetto. Esce dalla zona VIP, attraversa l’ampia sala da ballo e corre verso l’entrata principale. Il caldo lo opprime. Prende spallate da buzzurri latino americani tutti sudati. Corre fuori. Respira l’aria della notte.
Com’è strano. Sento che la febbre mi sta tornando.
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