sabato 28 novembre 2015


L'ultimo canestro




L'INCIPIT DEL ROMANZO


Ultimo quarto, ultimo tiro. Mancano tre secondi alla fine. Ti arriva la palla, una consegna urgente, salda nelle tue mani. Sei dietro la linea dei tre punti. Puoi vincere la partita solo se metti la tripla. Il pubblico è tutto in piedi. Diciottomila individui urlanti all’improvviso trattengono il fiato. Il delirio si trasforma in silenzio. Sei smarcato, puoi tirare. Devi tirare e lo sai. Tutto svanisce davanti ai tuoi occhi. La mente si svuota. Gli schemi di gioco, le posizioni dei compagni, gli avversari, gli spalti, l’arena, i pensieri, le paure. Tutto scompare in un istante lunghissimo. Non c’è più nessuno. È una sfida individuale. Sei solo tu contro il cerchio rosso del canestro. I muscoli sanno cosa devono fare. Il movimento è istintivo, automatico. Ti stai giocando la partita, il campionato, la carriera, i sogni, la reputazione, la storia, la vita. Ma la mente è astratta. Il destino è nelle tue mani sotto forma di una sfera arancione a spicchi. La mente è concentrata. Tutto svanisce. Carichi le gambe. Nei tuoi occhi c’è solo la traiettoria del pallone. Impressionante silenzio. Fai un respiro, imposti il tiro. Le braccia si contraggono, ogni singola terminazione nervosa delle dita sente il contatto con la palla. Abbandoni la terra. Salti. Butti fuori l’aria, lanci il pallone. Gli imprimi la giusta forza, la rotazione ideale. È la tua opera d’arte. È il tuo essere - concentrato in un movimento. Tutto è in quel tiro. Lasci la palla e qualcosa ti abbandona. Qualcosa non fa più parte di te. Una parte della tua anima se n’è andata. Ti sei lanciato nel vuoto, insieme a quel pallone. Hai scommesso. Il destino sta per compiersi. Tocchi terra, resti a guardare. Il braccio destro ancora alzato, il polso piegato dopo il rilascio del tiro. Gli occhi fissi in un istante lunghissimo. Il cronometro segna la fine. Il tabellone si illumina di rosso. La sirena lancia il suo urlo monocorde. Il giudizio finale. Tutti gli sguardi del palazzetto, della nazione, del mondo sono fissi sulla tua opera. Il tuo capolavoro o la tua rovina. Può entrare direttamente in retina con il suono netto e superbo del nylon. Può rimbalzare sul ferro, appoggiarsi spavaldamente al tabellone, carambolare e poi entrare con un violento brivido, portandoti la vittoria. Sarai osannato dal pubblico, rincorso dai tuoi compagni, portato in trionfo. Oppure il tiro può arrivare lungo, spiattellarsi sul secondo ferro, impennarsi in alto per poi atterrare direttamente nelle mani del rimbalzista avversario, che scaraventerà la palla in alto celebrando la sua irrevocabile vittoria. E tu resterai lì, sconfitto, umiliato, abbasserai la testa, le braccia, gli occhi a terra.  Il tempo è sospeso e una domanda risuona dentro di te: come andrà a finire? L’universo è in gioco per una sola ed ultima volta.
Tutti giocatori di basket vivono per questo istante. Ne hanno bisogno. Le ore di allenamento, le sessioni di tiro, i pesi, la corsa, la dieta, le trasferte, le stagioni, le statistiche, le classifiche, le strategie, gli equilibri, tutte le parole dette e non dette, le scommesse, le critiche, le pagelle, le voci, i titoli dei giornali, le copertine delle riviste, i contratti, i manager, gli accordi, gli sponsor, le urla del pubblico, il successo, il prestigio, tutto quanto è contenuto nell’istante che decide l’ultimo tiro. Il big shot, il tiro decisivo, il buzzer beater, il lancio che batte il cronometro allo scadere e regala la vittoria più bella sulla sirena. Questo è il brivido che rende unico il basket. Un’emozione che nient’altro al mondo può regalare: giocarsi la vita con un tiro da tre punti.



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martedì 17 novembre 2015

I tattoo di un giocatore NBA




DAL CAPITOLO 17 "L.A. CONNECTION"


Travis Banner si è già tolto la camicia, come se non aspettasse altro che mettere in mostra l’opera d’arte multicolore incisa sui suoi muscoli. Ogni tattoo indica una tappa della sua vita, un concetto, un’emozione. C’è la torre di Seattle, la città in cui è cresciuto in un orfanotrofio. Ci sono le parole delle canzoni che hanno segnato la sua esistenza. C’è il ritratto di Mr. Doggy, un bastardino che è stato il suo unico amico d’infanzia e di cui ha conservato una sola fotografia. Sul braccio destro svettano le alte montagne di Denver, dove ha iniziato la sua carriera NBA. Aveva tatuato anche il logo della squadra, sopra di esse, ma quando l’hanno ceduto senza preavviso, ha coperto quel disegno con l’immagine di una palla che prende fuoco. La sua passione per il basket s’è accesa ancora di più, dopo quel voltafaccia. Sulla schiena c’è una carpa Koi giapponese che risale la cascata, segno di determinazione nella riuscita di un sogno, ma le acque si confondono con il fiume Mississippi che attraversa la città di New Orleans, dove ha giocato per due anni e dove ha assistito al disastro provocato dall’uragano Katrina. Ci sono le palme di Malibu, segno del suo arrivo a Los Angeles. E poi un dragone viola che percorre tutto il suo braccio sinistro, secondo la tradizione orientale simbolo del destino, della forza e dell’equilibrio tra cielo e terra. Nella zampa destra, tre artigli stringono la sfera del desiderio, che è una palla da basket dorata che contiene il simbolo dei Lakers. Giocare nella squadra di Magic Johnson è per lui un sogno diventato realtà. Sul petto, a destra, c’è un cuore che arde in una fiamma azzurra. «La passione fredda, che nasce dalla mente. Il mio vero cuore batte a destra.» Appena sopra, il simbolo dei dollari. «Non bisogna amare altro, solo il denaro.»
Diversi teschi, disseminati qua e là, gli ricordano amici e fratelli morti. Qualcuno ha occhiali particolari sulle orbite, cappelli, baffi, altri sigarette o joint fra i denti, uno ha la testa infilzata da una siringa, «James, morto per eroina tre anni fa». Il collo di Travis è fatto a scaglie simili a quelle di un rettile. «Se vuoi sopravvivere in questo mondo senza pietà, devi essere viscido e a sangue freddo, come i serpenti».

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mercoledì 11 novembre 2015

Le luci di Times Square




 DAL CAPITOLO 5 "NBA DRAFT"

 Times Square, Manhattan, New York, Stati Uniti. Ore 22.37 del 25 giugno. La famiglia Tironi è riunita oltreoceano nell’incrocio più rappresentativo della Grande Mela. Giovanni li osserva attentamente e sorride. Tiene per mano Laura: ha occhi grandissimi che riflettono tutti i colori dei megaschermi. Gli dice: «È come se ci fossi già stata, qui, anche se è la prima volta.»
Guarda dove ti ho portata stasera, amore mio. Dimentica la piccola Cassano, sei con un giocatore NBA adesso - pensa Gio, sicuro di sé come non lo è mai stato in vita sua. La sua t-shirt aderente mette in rilievo muscoli asciutti e addominali ben delineati. Il vento di New York scompiglia i suoi capelli, ma non lo scalfisce.
    Il mondo gira attorno a loro, questa sera, come una telecamera, a 360 gradi. C’è anche Simone, accanto al piccolo Andrea. Le mille insegne luminose sparano i colori dell’arcobaleno sui loro volti, che hanno bocche spalancate dallo stupore. Fermi come statue, girano su sé stessi ipnotizzati da luci, flash ed immagini. Uno fissa l’enorme foto pubblicitaria di una fotomodella in lingerie, l’altro lo spot di uno spettacolo di Broadway con i suoi robot preferiti. Entrambi hanno la stessa espressione stampata sul viso, mista di meraviglia, stordimento e desiderio.
    E poi Maria ed Anselmo, vicini come non lo sono mai stati, dubbiosi quasi impauriti, esposti, fuori confine e fuori controllo. Si guardano attorno ammutoliti. Suo padre, coi calzoncini corti color cachi, le scarpe grosse da ginnastica e i calzettoni bianchi di spugna, senza saperlo si è perfettamente mimetizzato con il glorioso popolo americano.
    Famiglia Tironi riunita a Times Square, che spettacolo. Silenziosi a bocca aperta. Viene voglia di fotografarli in questo momento unico. Anselmo esprime la sua sentenza finale: «Immagina che bolletta della luce, a fine mese». E Maria annuisce, considerando la medesima cosa.
    Giovanni li accompagna in hotel che sono stremati. Andrea già dorme in groppa al fratellone. Poi si ferma all’open bar dell’hotel, con la sua ragazza ed il suo migliore amico, per raccontare, spiegare, sperare, parlare. Nella città che non dorme mai.



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